Archivio per ottobre, 2009

Tra i drammi della Colombia il meno conosciuto è forse quello ecologico. La coltivazione e soprattutto l’eliminazione dei narcocultivos stanno distruggendo il patrimonio ambientale, con pesanti conseguenze sulla vita sociale e economica.
E’ ormai noto che la Colombia è il primo produttore ed esportatore mondiale di cocaina e il terzo produttore mondiale di marijuana e che l’eroina colombiana è considerata tra le migliori del mondo. Nonostante cifre discordanti in termini di quantità prodotte, superfici coltivate e, soprattutto, profitti, tutte le stime e gli studi concordano infatti nell’indicare la forte ascesa negli ultimi anni della Colombia come coltivatore e produttore di droga.
Negli ultimi quindici anni i narcotrafficanti hanno acquistato terreni in 409 dei 1.039 municipi del Paese. Allo stato attuale possiedono oltre un quarto delle terre coltivabili del Paese: circa cinque milioni di ettari (più o meno il doppio della superficie del Piemonte). Il che significa che parte dei destini della sospirata riforma agraria (uno degli argomenti principali di disaccordo tra governo e guerrillas) e parte della sicurezza alimentare del Paese è in mano ai narcos.
Le conseguenze di queste appropriazioni sono state gravi e molteplici. Si è alzato il livello di concentrazione della proprietà terriera in poche mani, con la conseguente emigrazione di contadini verso le città o in altri municipi: oltre il 65% dei contadini desplazados (costretti cioè ad abbandonare la terra) è in possesso di un titolo di proprietà sulla terra irrimediabilmente perduto. E’ aumentato di molto il prezzo della terra, il che ha scoraggiato aspiranti impresari agricoli o allevatori. Si sono finanziate strategie pubbliche e private di difesa della terra contro la guerriglia di cui a fare le spese sono soprattutto le popolazioni rurali. Si è rafforzata la tendenza di destinare le migliori terre del Paese alla coltivazione estensiva, con grave pregiudizio dei boschi e dell’agricoltura medesima. Si è permesso ai narcos di smantellare e disgregare le vecchie comunità proprietarie di terra. Si è vincolata la proprietà terriera alla sicurezza personale, sicché la maggior parte dei contadini, al di là della convenienza economica, non ha altra scelta che quella di coltivare la coca. Il fatturato totale è calcolato intorno ai quindici-venti miliardi di dollari.
Ciò che è meno noto, ma altrettanto grave, è che la coltivazione, la lavorazione e anche la lotta ai narcocultivos comportano direttamente e indirettamente impatti devastanti al preziosissimo patrimonio naturale del Paese. Come dovunque nel Sud del mondo, i danni all’ambiente finiscono con l’essere doppiamente gravi.
Considerata la stretta dipendenza di gran parte della popolazione dalle risorse alimentari immediatamente disponibili in natura (frutta, cacciagione, pesca) e dagli elementi naturali (acqua, legna, terra coltivabile), a livello locale un danno ambientale si traduce in una perdita di tali risorse e quindi nella fame. Considerata poi l’importanza che per l’intero pianeta ha il patrimonio naturale della Colombia, uno dei Paesi della cosiddetta megadiversità, i danni ambientali si traducono a livello globale in una perdita di ricchezza in termini di biodiversità, riserve d’ossigeno, funzione termoregolatrice, possibilità di scoprire principi farmacologici in piante rare, ecc. Secondo gli specialisti il recupero degli ecosistemi originari in queste regioni richiederà, quando non vi siano già processi irreversibili, circa un centinaio di anni.
Per ottenere le superfici utili alla coltivazione il disboscamento viene effettuato senza alcuna cognizione scientifica o criterio di salvaguardia del territorio, spesso utilizzando il fuoco in modo incontrollato. Il risultato più immediato di questa azione è che impiantare un ettaro di coltivazione di piante da droga equivale a distruggere circa tre quarti di ettari di bosco andino dall’immenso valore ecologico. Nel complesso un’operazione del genere si traduce in una deforestazione di circa trecentoquarantamila ettari all’anno di foresta tropicale in tutto il Paese, pari a circa il 30% della deforestazione annua del Paese.
Da ricerche del Ministerio del Medio Ambiente emerge nel periodo tra il 1974 e il 1998 sono stati coltivati 307mila ettari (inclusi i fumigati) che hanno causato il disboscamento di circa 1.074.000 ettari di selva e boschi in ventitrè dipartimenti. La conseguenza è la perdita ingente di aree produttrici d’acqua (è stata stimata la scomparsa ogni anno di circa seicento ruscelli o piccole sorgenti) necessarie per mantenere il regime idraulico nelle principali conche idrografiche e impedire i processi di erosione del suolo; nonché la grave minaccia a ecosistemi-chiave per la riproduzione genetica in regioni considerate vere e proprie banche mondiali della biodiversità.
E’ inoltre enorme il “carico chimico” necessario a massimizzare la produttività di queste piantagioni: ogni anno sono utilizzate circa novecento tonnellate di erbicidi, sedicimila di fertilizzanti e quattrocentocinquanta di antiparassitari, col conseguente considerevole inquinamento di suolo e acqua.
(FONTE: narcomafie.it)